sabato 19 febbraio 2011

Taragna e Julien Labet

di Matteo Cavalleri

È Berlino che si conosce, visitando Mosca…così pensava Walter Benjamin, allorquando si apprestava a narrare, con micrologica e prensile sensibilità, la capitale sovietica. Nell’incontro con una nuova città - negato disvelato e liberato dall’impatto con l’insaputo, o col saputo poco - è infatti il calco del luogo d’origine che si riconosce.
E arrivando dal nord del continente, è  l’umidità della pianura padana che si riscopre nelle ossa, una volta penetrato l’androne dei palazzi senza riscaldamento del centro storico di Palermo. Quelli ai quali il mare d’inverno affida la riserva di frescura per l’estate (o così uno si augura). E l’umidità, per un bergamasco, significa anche il suo pharmakon: la polenta. Qui l’abbiamo provata nella versione taragna, tipica della Valtellina e delle Valli Bergamasche e Bresciane. La farina di mais è miscelata con quella di grano saraceno, in questo caso di Teglio. Il comune aspetto giallo e compatto della polenta risulta quindi screziato da vitree scaglie scure. Nella taragna la polenta raggiunge l’apice del suo statuto culinario. Arricchita di formaggio stagionato disciolto in cottura (Branzi e Bitto d’alpeggio), la polenta trascende infatti il suo ruolo di neutro accompagnamento e di caldo emolliente assurgendo così alla funzione di piatto unico. Il considerevole burro, leggermente imbiondito e da versarsi a fine cottura, regala le ultime calorie necessarie a scacciare l’umidità palermitana. Una salsiccia siciliana in bianco può in ogni modo rappresentare una fedele trasposizione culinaria della gentile accoglienza palermitana, affiancando con ferma sobrietà la taragna.

L’abbinamento del vino è stato quindi scelto assecondando il volo pindarico inaugurato dalla scelta per la polenta, ovvero lungo i rimandi sensoriali dell’umidità e del freddo nordici. Due vini bianchi dello Jura francese hanno ritmato l’evoluzione della consistenza della polenta nel piatto, a partire dalla sua preparazione. Abbiamo iniziato con La Reine 2007 di Julien Labet, giovane vigneron di Rotalier. Uno chardonnay in purezza, proveniente da vigne piantate tra il 1900 e il 1920, frutto di selezione massale. Le vigne di Julien Labet sono coltivate nel massimo rigore, senza l’utilizzo di pesticidi o fertilizzanti. La vinificazione è di stile borgognone: geometrica demarcazione ed espressione parcellare e botte colma, utilizzo di lieviti indigeni e nessun filtraggio. Il vino si presenta di un elegante colore giallo, intenso, signorile e limpido. Al naso, dopo un velo afono, colpisce la mineralità, la sapidità radicale che ne caratterizzerà la beva. In bocca compare il bozzolo aromatico di uno chardonnay maturo, ma quasi sottratto, negato e teso da un’acidità dal nerbo affilato. Dona eleganza matura una finale nota lattica. Abbiamo proseguito con la La cuvée du Hasard 2005 del Domaine Labet (di proprietà della famiglia di Julien), ovvero uno chardonnay consapevolmente scambiato per un savagnin (tipico vitigno a bacca bianca dello Jura) e vinificato come un vin de voile attraverso un processo ossidativo. Questa vinificazione, tipica dello Jura, consiste nel lasciare le botti scolme, forzando il naturale scontro del vino con l’ossigeno. Il risultato è la creazione di un velo di lieviti, indigeni, che si forma sulla superficie del vino e ne media l’ubriacatura d’ossigeno. Solitamente questa vinificazione è riservata al savagnin, ma i Labet hanno deciso di azzardarla anche con lo chardonnay: il risultato è un vino dal caratteristico aroma di curry, spezie, noce (frutto e mallo) e foglia di tabacco verde. Il tutto sospinto da una spina acida incredibile, che ben ha duettato con il finocchietto della salsiccia intrecciandosi in un ritmato rimando e rilancio a due. L’azzardo è forse la cifra di tutta la poetica enologica dei Labet, genitori e figlio. Ovvero la consapevolezza che inserirsi in una tradizione, esservi fedeli, significa distorcerla ai suoi limiti stilistici. Prendersi la responsabilità dell’invenzione continua della sua espressione, che non può mai darsi a priori, magari affidandola alla chimera di un’autosignificante naturalità originaria di un terroir: “Le vin naturellement n’existerait pas … Il ne pousse pas dans la nature, bien qu’il soit issu du fruit de la vigne … Profondément humain, il aiguise, attise les sens, les perceptions olfactives, visuelles et gustatives … C’est une boisson pleine de culture qui questionne l’esthétique, la beauté, la sensibilité de l’homme” (Julien Labet).

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