sabato 27 febbraio 2010

Intervista a Marco De Bartoli

Ironico e appassionato, vulcanico e rompicoglioni, De Bartoli ha un’irruenza terrigna. Con il suo lavoro e le sue idee si è battuto per innalzare la qualità del vino siciliano. I suoi vini hanno inventato un territorio.

giovedì 25 febbraio 2010

Umore Nero

Avete presente la scena del film Sideways nella quale Paul Giamatti canta le lodi del Pinot Nero ad una estatica Virginia Madsen sotto un portico? Ebbene la mia infatuazione per il Pinot nero era precedente ma quel dialogo l'ha consacrato al rango di potente freno alle derive depressive. Insomma il Blauburgunder e Sideways sono meglio del Prozac. E ora scopro che c'è un vino che già nel nome porta una promessa omeopatica di felicità: l'eccentrico Umore Nero dell'Azienda Castello di Luzzano. Curare il male con piccole dosi crescenti di male. E funziona. E' un vino allegro, fuori dagli schemi, un pinot Nero, strano, diverso... coltivato nell'Oltrepò Pavese, rosso rubino, definito giustamente un pò irriverente. E poi mi diverte questa doppiezza del nome dove umore è succo ma anche stato d'animo e trovo bella la grafica da fumetto dell'etichetta. Un vino certamente non complicato, diverso da molti altoatesini. Eppure un vino brioso, da tutto pasto, simpatico. Una di quelle scene che guardi e riguardi a cui ti rivolgi per combattere un Febbraio umido e piovigginoso...quando sei d'umore nero.

mercoledì 24 febbraio 2010

Le stigghiole di Tanino

Quando domando a Tanino, stigghiolàro della Vuccirìa, come si fanno le stigghiòle, la sua risposta è fulminante: “tu come ‘i manci?”. Io tentenno, Tanino non tradisce nessuna emozione, sono obbligato a rispondere. Con le mani le mangio, Tanino. “Ecco, e io le faccio con le mani”.
La stigghiòla, mi spiega Tanino, è l’intestino del vitello. Un vitello ha almeno 8 kg di intestini, ed una “stecca di stigghiòle” equivale ad un quarto di chilo. Gli intestini vengono sfilettati a mano dal proprio budello, lavati e infilzati su uno spiedo. Da qui il termine “stecca di stigghiòla”. Per annodarli, chiudendoli a mò di sutura, si userà come filo il budello stesso precedentemente sfilettato. Viene inoltre aggiunto il grasso del vitello che, legato a filo agli intestini dal budello, serve nel momento della griglia ad insaporire le interiora, sciogliendosi in esse.
Una volta preparata, la stecca di stigghiòla si cucina alla griglia su una brace. Una priorità dello stigghiolàro è la colonnina di fumo che perennemente si alza dalla sua brace. Si chiama in gergo “l’invito”: è un pezzo di grasso che sprigiona fumo mentre si consuma al calore della fiamma. Serve a segnare nel territorio la presenza dello stigghiolàro. Laddove c’è fumo, c’è arrustùta


domenica 21 febbraio 2010

Il cannolo siciliano degli Albanesi.


Il 21 febbraio è la “Giornata Internazionale della Lingua Madre”. La data vuole ricordare la sollevazione avvenuta nel 1952 nell’allora Pakistan orientale in difesa del “bangla”, madre lingua in quella parte del paese. D’allora la giornata è celebrata ogni anno con il fine di promuovere la diversità linguistica e culturale ed il multilinguismo. E' una giornata che serve anche a ribadire che le diversità possono coesistere e portare ricchezza. Noi abbiamo scelto un modo molto particolare per ricordarlo. In Sicilia risiede da più di cinquecento anni un'attiva minoranza linguistica albanese. Si tratta di insediamenti sparsi sul territorio il più importante dei quali è Piana degli Albanesi. Oltre a conservare le proprie tradizioni, la lingua, i costumi, la confessione religiosa, gli abitanti di questo paese regalano alla gioia del palato una delle più sublimi interpretazioni del cannolo siciliano.
In questi giorni si fa un gran parlare a sproposito della identità culinaria italiana e intanto farsescamente si delega la difesa del nostro gusto nazionale a McDonald's con un pessimo panino, il mac italy. Il tutto riceve addirittura la sponsorizzazione di un triste figuro, il ministro Zaia. In verità una delle migliori rappresentazioni della lenta costruzione del nostro molteplice gusto è il cannolo di Piana degli Albanesi, il frutto di una contaminazione, di una creolizzazione della cucina nella quale immigrati fondono la loro sapienza artigianale con la cultura locale. La cucina esalta le identità confondendole, mescolando le appartenenze. Non è forse la cassata siciliana il frutto di una ibridazione tra culture diverse?
Oggi quando si pensa al cannolo di Piana realizzato da eredi di migranti albanesi del '500 si pensa al vero autentico cannolo siciliano.

sabato 13 febbraio 2010

Tsukiji

di Davide Enia
Alle 5 ca matinàta c’è l’asta del tonno al più grande mercato di pesce dell’Asia. Tsukiji, si chiama. La città è Tokyo. Metrò a quell’ora ‘un ci nn’è, un bello taxi dal nostro hotel (Shinjuku) a Tsukiji, che è a 20 minuti a piedi da Ginza, quartiere di grattacieli e uffici e Sony Building vari. Tipo meno di 15 euri di spesa (per un tratto che a Roma, almeno 30 euri, con in più il tassista a parlarti di argomenti così poco interessanti che forse il solo Ghedini). Arrivati, siamo pochissimi gajin (stranieri) ed un fottìo di giappo che travàgghiano ddùoco dìntra. La prima cosa che risalta è l’acqua: dappertutto. Dà parecchia soddisfazione notare che quasi tutti gli altri stranieri (americani per lo più) calzano inutili infradito. Si chiama “fish market”, ma è pur sempre una enorme, imponente, bagnatissima pescheria (consiglio di chi ci è stato: ìtici ch’i scarpe chiuse).

mercoledì 10 febbraio 2010

Trattoria Ai cascinari

 
di Sandro Gulì
In via D’Ossuna, dove un tempo c’era l’ingreso del cortile Cascino si trova una delle più interessanti trattorie palermitane, un ottimo esempio di recupero della tradizione e di innovazione. Tutto ruota attorno a due fratelli: Vito e Piero Riccobono. La loro è una storia che avremmo potuto leggere nei racconti di Danilo Dolci, che al cortile Cascino, a questo luogo rimosso dalla memoria della città, aveva dedicato molta attenzione. Negli anni settanta i genitori dei fratelli Riccobono impiantano all'ingresso del cortile Cascino una rivendita di vino e una piccola osteria.
A Saro sarebbe piaciuto esercitare la professione di geometra ma la città offre figure troppo complicate, poco adatte ad una mente lucida, determinata come la sua. Sono gli anni del sacco di Palermo. Il cortile comincia a spopolarsi e bisogna innovare per sopravvivere. Così inizia la ricerca.

domenica 7 febbraio 2010

Cucina casalinga

Arriva la domenica per Caponata e anche i bloggers tengono famiglia. 
E questo mi permette di parlare un pò di cucina casalinga: un enorme 
scrigno di saperi accumulati, tramandati con infinite varianti e a dire il 
vero, a volte una fonte di eterne dispute su ingredienti, formitori e cotture. 
Nutrimento e cultura, identità e memoria, profumi e vissuti, tutto questo 
è la cucina casalinga. Difficilmente svanirà nella mia testa l'associazione tra 
la sigla del novantesimo minuto e il lento trafficare della nonna che si prepara 
a friggere le polpette.

mercoledì 3 febbraio 2010

La frittola


La frittola è  la linea di confine. Non sono in molti a oltrepassarla.  Forse per una diffidenza nei confronti di una certa segretezza suggerita dal quel “panaro” avvolto dalle coperte. Eppure è proprio nell’amorevole calore preservato dalle mante, nella ritualità dei gesti del frittolaro che ritroviamo alcuni caratteri dell’urbanità palermitana. Socialmente la frittola è il cibo del sotto-proletariato urbano, in un certo senso è forse il cibo palermitano più autenticamente popolare; milza o panelle sono più trasversali, più interclassiste, allineano il parcheggiatore e il dottore. Mangiare la frittola invece è come ricevere le chiavi della città, è come consumare un piccolo rito segreto, appartato.
Peccato che stia scomparendo. A Palermo, la si può trovare a Porta Carini, in via Costantino Lascaris e in Piazza Kalsa, allo stadio, ed in pochissimi altri luoghi dove pochi sapienti frittolari la preparano ancora secondo antiche ricette orali. La frittola è l’insieme di piccoli grassetti attaccati alle ossa del vitello, è la somma di tutto ciò che si può ricavare dopo che un macellaio ha sottratto muscoli nobili alle ossa: grassi, nervetti, cartilagini. Questi ingredienti, sottratti allo spreco della loro esser destinati alla munnìzza, vengono dapprima fritti senza aggiunta di olio, sfruttando la loro grassa natura. (Ecco perché si chiama frittola: il nome deriva dalla prima trasformazione che la cucina opera sulla materia prima). Dopo il tutto viene bollito in pentoloni e aromatizzato con alloro e spezie varie. Il prodotto, ancora caldo, viene poi trasferito nel panaro e poi ricoperto da mante, coperte di cotone grezzo, per mantenere l’elevata temperatura: il calore infatti sfinisce le fibre e preserva la morbidità e la dolcezza della frittola. Nel panaro ce ne stanno circa venti chili ma la media può aumentare a seconda delle giornate. In una fredda giornata di stadio se ne può produrre di più. La si consuma in due modi: dentro un panino, il semprefresco, oppure nella versione a “cartàta”, su due fogli cioè di carta oleata che il frittolaro chiede di apparare il più vicino possibile al panaro perché nulla vada perso. La frittola viene estratta dal panaro e con gesto ampio e perentorio messa sulla csrtata. Solitamente si aggiunge pepe nero. Si mangia per lo più nella tarda mattinata  e può valere come pranzo o come preludio a tocchi di birra.