sabato 15 maggio 2010

Isole dell'isola: Panarea


di Davide Enia e Sandro Gulì

E quindi abbiamo appena parcheggiato a Milazzo santiàndo per l’assurdità di non avere da Palermo nessun aliscafo che ci porti direttamente alle Eolie, ma il màlo segno dei tempi lo si legge  nell’assenza di strutture nel territorio o nel pessimo stato della Palermo-Messina. Possiamo solo sperare che la sosta a Panarea lenisca questa amarezza per lo stato di acuta malattia in cui versa l’Isola (ed invero Panarea è stata panacea del male nei due giorni di soggiorno). Stiamo per imbarcarci quando, più con meraviglia che con sconforto, veniamo stoppati da due poliziotti in borghese per un “controllo antiterrorismo”.
Sarà che vestiamo entrambi camicie di lino, saranno i sandali ai nostri piedi, sarà che uno di noi ha un panama e l’altro no (“t’u rìssi ‘i lassàri ddu cappello tutto uomo-del-monte nna màchina!”). Inutile sapere quali intuizioni possano fare sì che tra tanti sia proprio tu a vincere il controllo antiterrorismo al molo di Milazzo. Comunque, i vincitori siamo noi due (su cinquecento e passa persone, minchia ru culo). Ci portano in un deprimente stanzino e dopo la perquisizione (“Cos’è?”, “Un libro”, “A che ti serve?”, “Niè, se il letto balla lo metto sotto”, “Non faccia lo spiritoso”, “E chi scherza, mica leggo io”) ci chiedono, senza reale interesse, “Cosa andate a fare alle Eolie”. La nostra risposta li spiazza: andiamo a mangiare per capire il territorio. Il loro atteggiamento cambia di colpo. I controllori ci scortano personalmente sull’aliscafo augurandoci ogni bene, con l’affettuosa cordialità che si riserva ai pazzi di catena.
 Le Eolie sono isole vulcaniche, viste dal mare questa evidenza è sconcertante: triangoli di terra che si inerpicano spavaldamente verso il cielo senza timore alcuno. Eppure queste isole così denotate da fuoco e terra devono il proprio nome all’elemento più imprevedibile e meno controllabile: sono dominio di Eolo, signore del vento. Nel loro nome nulla della fisicità concreta del fuoco che brucia e della terra che si calpesta. Ecco perché, pur nella assoluta e marcata diversità di ogni isola dalle altre, la cucina eoliana risente di questa aleatoria imprevedibilità: come il vento gira all’improvviso, così le materie prime della cucina varieranno coi capricci del tempo, sganciadosi dalla ferrea e rassicurante ciclicità che è propria del cerchio delle stagioni.
Sbarcati, attraversiamo Panarea a piedi. La prima impressione è proprio questa: la superficie dell’isola non è coltivata (e quindi assenza di materie prime) né esistono (e come potrebbero?) pascoli (e quindi niente belati o muggiti), davanti il mare è (come ovunque) soggetto ai capricci del vento. La cucina, la trasformazione del cibo, come avremo modo di notare a cena, deve fare i conti con una necessaria invenzione continua.

Ceniamo al ristorante Hycesia. Ha una bella storia ‘sto posto: fu aperto dalla vecchia maestra elementare di Panarea negli anni ‘70, quando tornare ogni sera a Milazzo per cena non pareva essere una idea splendida. Lo chef è Gaetano Nanì, figlio di quella pioneristica maestra elementare. La carta dei vini che ci danno è un piccolo libro dei sogni. Mangiamo: crudi di pesce con sfoglie di zenzero marinate secondo una ricetta orientale, surra al vapore con le melenzane cotte alla menta con verdure e scorfano arrosto, pasta fresca col sugo ricavato dalla cernia, tonno alla Dimitri, trancio di cernia ai profumi delle Eolie. Ci racconterà lo chef dopo cena che queste erano le materie prime arrivate in giornata sull’isola. Panarea e le altre isole dell’arcipelago vivono così la vera condizione di chi sta ai confini: isole dell’Isola, esperiscono ogni giorno il loro essere limite e, al contempo, limen (soglia): sono il bordo estremo del territorio siciliano, si confrontano di continuo che con le estremità degli elementi. Un occhio a se stessi ed uno al di fuori, o, come direbbe mio zio, un’occhio a Gesù Cristo e l’altro a San Giovanni. Perché abitare in prossimità di un limite sviluppa un rapporto tra tutto quello che c’è qui e tutto quello che c’è oltre. L’identità si costruisce dentro questa forbice. Il limite di una piccola isola è il mare o, meglio ancora, le condizioni meteo del mare in questione. Ecco perché la cucina diventa una grande gara di improvvisazione: devi “arrangiare” ciò che trovi, il che comporta -come ogni vera improvvisazione- la conoscenza e l’uso di una tecnica tali da poter giocare con gli elementi che si hanno a disposizione. Così il pesce diventa materia da grigliare o da trasformare in crudità con l’arte del coltello. Diventa quindi “tradizione” ciò che è sfuggente: il gioco di invenzione continuo su sapori e ricordi, a seconda di ciò che il mare ha voluto dare in quel dato momento dell’anno. Così anche bere la malvasia eoliana crea questa riflessione: di questo arcipelago si sono imposti il cappero e la malvasia, due frutti della terra capaci di crescere in condizioni difficili e destinati però ad accompagnare (come complemento dei sapori il cappero, addolcendo i cibi o i pomeriggi la malvasia). L’identità culinaria delle Eolie è sfuggente, come ogni limite.


3 commenti:

  1. Le eolie sono un vero paradiso. Adoro Capperi e Malvasia. Racconto molto divertente. Dovete farne più spesso.
    Davide

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  2. Ragazzi...voi che venite fermati dall'antiterrorismo non si può sentire. Ancora rido.
    Ma poi come vi hanno rilasciato come non hanno considerato la vostra estrema pericolosità? Col panama poi?

    ahahahh grazie un post molto ironico.
    Massimo

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  3. che belle immmagini
    fanno venire una voglia!!!!!

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