La cucina di Pino Cuttaia è memoria che si fa piatto. Nel caso dei sapori, come per alcuni stati d’animo, la memoria è un fenomeno che viene alimentato dalla moltitudine. Le preparazioni, le tecniche si possono trasmettere, ma cosa avviene per i gusti, specialmente quando appartengono a quella sfera comune dell’immaginario? L’associazione di un sapore con un’emozione, con un evento singolare o collettivo è un’esperienza che coinvolge tutti.
Chi di noi non ha memoria del gusto di un dolcetto rubato sotto i rimproveri benevoli della nonna prima di andare a tavola? Cucina e memoria sembrano davvero un binomio inscindibile. Paradossalmente spesso i custodi della memoria sono proprio i migranti, quelli che se ne vanno e coltivano un personale immaginario di un mitico luogo di provenienza. Coltivare la memoria è per loro sottrarre emozioni profonde all’oblio. Non vivendo gli impedimenti della quotidianità accedono ad un livello arcaico della memoria, alle idee essenziali. E questa è la storia di Cuttaia che, in una sorta di spedizione dei mille al contrario, risale la penisola, cresce in Piemonte e impara il mestiere con una tenacia e determinazione che lo porta a sfornare il pane più buono di tutta la regione dopo aver provato per pomeriggi interi a casa propria l’esatta modalità per riprodurre la fragranza del pane di Licata.
Molti dei gusti o dei sapori Cuttaia non li ha vissuti quotidianamente ma li ha coltivati nella sua mente e quando, oggi, deve creare nuovi piatti, affonda in questa memoria collettiva arcaica. Quasi una cucina psicoanalitica, una cucina del profondo. Il talento è vincere le rimozioni, superare con pazienza la piccola resistenza degli oggetti e delle consistenze per creare nuovi intrecci. Sciogliere i fili delle trame del passato e riannodarli in una nuova composizione. Cuttaia unisce capacità di recupero alla precisione per il particolare. Una analisi precisa è come una netta incisione del coltello per dividere il superfluo dall’essenziale. In Cuttaia questo si manifesta in una grande accuratezza per il dettaglio unita ad una grande perizia tecnica nella realizzazione dei piatti. Come un maestro zen, Cuttaia è un maestro dell’incisione, usa il coltello per sezionare, per inserirsi nelle giunture e aprirle. C’è un piatto che racconta la precisione del suo essere artigiano: il tentacolo di polpo cotto alla brace su una passata di ceci con panella al forno. Il tentacolo viene inciso longitudinalmente in modo da mostrare solo una linea di ventose e poi viene cotto alla brace. Vengono inferte piccole incisioni sul dorso per permettere al tentacolo di formare una perfetta spirale sul piatto con una resa cromatica e compositiva di grandissimo impatto. Il risultato è un’armonia compositiva in cui i sapori non confliggono mai ma si compongono in delicati equilibri.
Come nascono i tuoi piatti?
Alcuni piatti nascono per gioco, altri vengono fuori quando meno te l’aspetti, forse perché hai tre o quattro ingredienti proprio lì, davanti agli occhi, o forse perché hai una intuizione che rimane per tanto tempo in ombra e poi in una giornata così, ecco che tutto si illumina e nasce il piatto. La mia è una cucina di pensiero ma dev’essere divertente. E quando parlo di “pensiero” in cucina mi riferisco ad una memoria dei sapori che racconta noi stessi e comunica i nostri sentimenti. Ti faccio un esempio. Stavo pensando da un po’ alla carbonella di mandorla, una brace che si faceva quando ero bambino, con le mandorle a bruciare nel carbone per profumare tutto. Allora ho visto un piatto oblungo e ho pensato: ecco cosa potrebbe contenere della carbonella… un braciere poi illumina e riscalda, così ho questa idea: portare la fornacella a tavola, quasi un ricordo del cibo di strada. Bisogna aspettare ed avere pazienza. E poi “carbonella di mandorla” ha già un suono bello che esprime dolcezza.
Cos’è la memoria per te?
Attraverso la memoria riesco a comunicare il nostro territorio ed è qualcosa che lego all’arcaicità, brace e fuoco. Il lavoro sulle origini è la chiave per avvicinarmi a tutti, partendo da una lingua condivisa. La parmigiana del giorno dopo risponde a questo criterio: la sua consistenza, la sua esatta temperatura ricorda un sapore del giorno prima, ed è subito famiglia nella memoria di chi mangia.
E le emozioni?
Le emozioni ci sono quando attraverso il gioco ci sentiamo vivi. Ed è attraverso le emozioni, frammenti che ti danno la voglia di vivere, che rinasce il fascino dell’artigianalità, in cui per esempio creare un piatto in cui ci sia qualcosa di soffiato come una nuvola, diventa un gioco affascinante. E tutto questo, il gioco, la ricerca, l’artigianato è legato ad un concetto diverso di tempo, più individuale. C’è bisogno di lentezza. Chi viene qua a Licata non può essere di fretta, e io non vorrei mai avere clienti distratti. Il tempo da passare a tavola richiede calma, serenità, la stessa lentezza che è necessaria al tempo di creazione, di concezione di un piatto, un tempo che deve sedimentare.
Che cosa ha di particolare il tuo territorio?
Se io penso al mio territorio, penso alla magna Grecia, ai campi di grano, alle cicale, ad una terra contadina e marinara. Penso a pomeriggi invasi di silenzio e di noia
La tua cucina è armonica, da dove viene questa ispirazione?
Dalla magna Grecia mi viene questo ideale di bellezza proporzionata di armonie e di geometrie. È difficile fare una cucina che piaccia a tutti, ma in questo mestiere devi dare a tutti la possibilità di gustare. Ogni piatto è un parto, soffri, ti arrabbi, poi nasce ed è talmente personale che sì, può essere vincente, ma a volte la soggettività spiazza. A me interessa una cucina che a tavola si possa mangiare. Parto dal mio territorio, dalla mia memoria, e ricerco. E più la mia cucina è vicina al territorio, più parla agli altri, e più comunica più diventa vicina allo straniero. Ma io devo ancora arrivare alla cucina giusta, sono in continua ricerca. Una ricerca che non avrà mai fine
le due stelle sono meritatissime. E poi è una persona splendida.
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