domenica 13 dicembre 2009

Ciccio Sultano: la tradizione della variante


La nostra inchiesta sull'invenzione del territorio continua con l'intervista a  Ciccio Sultano, lo chef del ristorante Duomo di Ragusa.
Il rapporto tra un grande chef e la cucina di territorio è un po’ come la relazione tra l’oralità e la scrittura, tra la vita che prende forma nei racconti e i testi scritti che la tramandano. Il cuoco ha imparato a parlare una lingua crescendo tra le regole codificate della preparazione di un piatto; ma se vuole veramente restare fedele a quella lingua, sa che deve cambiarla, stravolgerla, spingerla oltre. Un cuoco si muove dai testi alla vita e dalla vita ai testi e non trova pace né nei testi né nella vita ma nel continuo viaggio, nel gioco infinito delle varianti. La variante Sultano.

Come definiresti la tua cucina?

A me va bene la definizione di cucina barocca. Naturalmente un barocco fatto bene. Io non ho una cucina concettuale, vedo però una tendenza a intellettualizzare tutto con effetti spesso ridicoli. All’inizio sono partito con una cucina molto legata al territorio. A poco a poco sono passato da una tradizione radicata ad una tradizione ragionata, lavorando sugli equilibri che un piatto deve avere: il rapporto tra morbido e croccante, tra zuccheri e sale, i suoi colori; poi ci deve essere un nesso che lega ciò che mangi a ciò che vedi, per far scattare un piacere ulteriore in chi sta mangiando. La mia cucina cerca di andare al di là del folklore. Una cosa a cui tendo è il sovvertimento del falso immaginario che si ha della Sicilia, io voglio fare esplodere il carretto siciliano, le donne vestite di nero, il marranzano. Inoltre noi siciliani abbiamo sì una cultura millenaria e una storia potente, ma questo però non ci può difendere. Noi dobbiamo difenderci in altro modo. La grandezza del nostro passato non può essere un alibi o uno scudo.


Come arrivi ai tuoi piatti: con la testa o con il palato ?

Con tutti e due. Vi faccio un esempio. E’ estate, quali verdure da foglia ci sono? Lattuga e tenerumi. Estate, caldo, pesce. Cucinare un pesce. Il dentice. E penso a un piatto che abbia strati di lattuga e un cuore di pesce. Come far aderire l’uno all’altro? Uso la  patata come collante, insieme al latte e all’olio... ecco un progetto di piatto per l’estate. Poi ragiono sulle salse: timo più aglio imbrunito. Però mi serve che l’ultima foglia della portata sia croccante, allora potrei eseguire una cottura in olio con semolino molto grosso... Lo studio riguarda quanti strati deve avere il piatto, la componente di testa è forte. C’è però l’esperienza del palato che ti fa sapere prima cosa funziona e cosa no.

Quale rapporto c’è tra gustativo e
visivo?

Il bello non deve andare mai a discapito del gusto. Devono essere complementari. E’ chiaro che il protagonista deve essere in primo piano, deve avere un posto centrale e riconoscibile. Poi funziona bene il concetto di stratificazione che però viene fuori in modo naturale prima di essere pensato.

Quali sono gli ingredienti che ti affascinano di più?


Tra gli animali di mare amo la triglia, ha un sapore di vegetale che è molto nobile in un pesce. Poi l’olio, uno dei mezzi di comunicazione fondamentali per un cuoco, l’olio che naviga i sapori. Poi c’è il sale, che è sole, vento e mare. Tra le carni amo molto l’agnello.

Si può educare il gusto?

La qualità ha una nicchia e sempre l’avrà. Ma educare il gusto si può, è un nostro intento. Forse è difficile entrare nel gusto comune diffuso perché tutto ciò che non è digerito nella mente viene classificato come sofisticato. Ma perché: la caponata non è sofisticata? Un sugo di maiale non è forse complicato? Sono almeno due giornate di lavoro! Il punto è che si ha paura dell’ignoto. Ma la cucina è un linguaggio, è comunicazione, è dialogo. Ed è sempre in due che si dialoga.

Che cos’è la tradizione?

La tradizione non è una gabbia, deve anzi avere una dose di innovazione. Noi siciliani abbiamo flessibilità. Io cerco di rispettare la tradizione, cercando di migliorarla. La tradizione non è nata con dieci comandamenti già stabiliti, soltanto quando viene digerita o assimilata viene chiamata tradizione.

Sultano porta ogni facoltà sensoriale coinvolta nell’atto del gustare al punto estremo, laddove si congiungono sensibile già noto e nuove sensibilità. I suoi piatti sono costruiti con una energia espressiva incontenibile. Frutto di riduzioni e concentrazioni, di esplosioni e ricomposizioni, hanno un rigore quasi razionalistico. Il piatto si fa progetto, rispettando il ritmo delle stagioni e delle potenzialità dei prodotti. Alla tavola di Sultano non hai mai l’idea che prevalga un’astratta esigenza concettuale. Piuttosto c’è una tendenza ludica all’accostamento insolito, ai colori, ma tutto matura da una lucida consapevolezza e da uno studio rigoroso. Il suo rapporto con il territorio è passionale; ha un dialogo costante con i produttori, spesso anche polemico. Nei prodotti intravede le venature e i colori, asseconda i profumi e trasforma le consistenze. Le stagioni sono un vincolo, le materie prime una possibilità. La sua cucina esprime fierezza, tensione, energia e senso della memoria.

C’è un cucchiaio con dentro uno scampo cotto al vapore, immerso in salsa di corallo e velato con zucchero di fichi d’India, così quando lo metti in bocca il dolce va dietro, ed è l’ultimo sapore di cui il palato avrà percezione, avendo però ancora ben presente la memoria del mare. C’è la polpa di riccio con ricotta al limone, che crea un sorprendente senso di apertura proprio in virtù dello sposalizio tra elementi terrestri e marini. Eppoi c’è il piatto in cui trionfa l’eroticità: il polpo cotto a carbone immerso in quella panna montata avvolta da un velo di mozzarella che è la burrata. Alla morbidezza di essi, ecco contrapporsi il croccante delicato di una chips di topinambur al peperoncino (per far risaltare i sapori) e all’insalata di arancia (per rinfrescare). Ciò che è stupefacente è come i sapori mantengano la propria riconoscibilità e al contempo si sposino l’un l’altro creando così una terza via, un terzo sapore da percorrere con stupefatta gioia. Come nelle fughe di Bach, in cui linee melodiche separate si sommano creando, mentre vengono suonate, la suprema sintesi di una terza melodia, esatta nella costruzione armonica, necessaria nel suo dispiegarsi nota dopo nota, nuova nel suo essere tradizionale

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