sabato 27 febbraio 2010

Intervista a Marco De Bartoli

Ironico e appassionato, vulcanico e rompicoglioni, De Bartoli ha un’irruenza terrigna. Con il suo lavoro e le sue idee si è battuto per innalzare la qualità del vino siciliano. I suoi vini hanno inventato un territorio.

Nel contesto della produzione di Marsala, la cui qualità era svilita, ha creato il “Vecchio Samperi” un vino che inventa una nuova sintassi in una lingua stanca, cambiando il gusto e svecchiando l’immagine del Marsala nel mondo. Un ostinato impegno per il quale il nome storico dell’enologia italiana, l’anarchico Luigi Veronelli, alle degustazioni esclamava: “è arrivato il Marsala”. Ma, se i nomi sono la conseguenza delle cose, il nome di questo vino è emblematico: non è difatti “Marsala” ma “Vecchio Samperi” (dal nome della contrada dove si trovano le cantine) come a rimarcare orgogliosamente una diversità caparbia ma capace come nessun altro vino di esprimere in profondità i segni più marcati del territorio da cui nasce, Marsala per l’appunto. Ecco il paradosso di De Bartoli: il “Vecchio Samperi” inventa il “Marsala”. Oggi la maggior parte dei vini è ruffiana, va incontro alla facilità del gusto, semplificando il territorio e la sua naturale complessità. Quando un vino è creato bene, rispettando e valorizzando il terroir, comunica, evoca, ispira, narra. Resiste al presente.

Tu, nell’atto di creazione di un vino, sai cosa vuoi?

Il risultato che voglio ottenere lo costruisco in testa: sapore, colore, profumo. Poi, certo, tecnologia e conoscenza possono aiutare ma l’idea del risultato di tutta la lavorazione devo averla chiara in testa.

Qual è il tuo rapporto con la terra?

Io sono nato dentro il Marsala, in questo territorio, da una famiglia di produttori di vino. Sono laureato in agraria, sebbene fossi destinato a fare scienze politiche a Losanna perché a casa mia mi volevano dottore; io volevo semplicemente sbrigarmi così mi laureai in agraria in tre anni, ma mi reputo, mi sento un contadino, anche.

E’ importante la tecnologia nella realizzazione del vino?

Il vino è come la chirurgia, servono gli attrezzi adeguati. Poi c’è l’elemento variabile ed indefinibile, il terroir: terreno, zona e clima, tutto ciò che dal sole alla pioggia alle escursioni termiche determina un ambiente adatto ad un uvaggio. Abitando un dato territorio, comprendi che certe piante si sviluppano meglio di altre, ne impari così le regole e compri di conseguenza gli strumenti adatti, ma devi essere in grado di capire il cambio dei venti, spesso inatteso e sempre repentino, perché non è la sola tecnologia a fare il vino.

E con l’uva che rapporti hai?

Bellissimo: io e l’uva non ci vediamo quasi mai, ma ci pensiamo, sempre. Vado da lei nel vigneto cinque volte l’anno e ci guardiamo a distanza. Quasi un amore platonico. Però quando si deve vendemmiare, sono io che decido, così la vado a salutare, le chiedo “come stai?” e poi comincia l’avventura.

La pensi, la corteggi....

Fare vino è anche un fatto di sesso: credo che se non avessi un erotismo enologico non riuscirei ad avere queste cure. Tempo fa noi facevamo un’inzolia, buona, ma... c’era questa uva grillo... mi voleva accalappiare... ogni volta che la guardavo, la vendemmiavo e la vinificavo sentivo una forza attrattiva... mi attirava davvero a sé, i suoi profumi mi seducevano. Così decisi di farne un bianco, e nacquero i “ Grappoli del Grillo”. Una storia di seduzione. E’ come per la cucina, in cui si ragiona con la materia. In questo caso è con l’uva che ci si confronta, e l’uva è vendicativa. Una vite, se non è piantata nel posto giusto, produce male.

E allora uno fa vini che gli assomigliano?

Sì. A me faceva impressione quando qualcuno affermava: “io nel vino riesco a capire il carattere di chi lo fa”. Poi mi è capitato facendo bere il “Vecchio Samperi”, il mio pupillo, di notare come i commenti su di lui in realtà descrivevano esattamente il mio carattere. E forse è davvero così, il “Vecchio Samperi” è l’espressione più autentica di me, del mio temperamento, del mio orgoglio.

Perché hai fatto il Vecchio Samperi ?

Mio nonno Pellegrino m’ha trasmesso il piacere per il vino buono, ma nel tempo notavo come il gusto andava via via corrompendosi: in casa nostra, per esempio, passava gente di continuo e quando per ospitalità si offriva il Marsala notavo che i prodotti facili al palato piacevano di più. Erano vini dolci, abboccati. Già allora capii che se inseguiamo il prodotto di facile consumo, facciamo un danno alla qualità. E negli anni c’è stata una rincorsa alla produzione facile, di largo consumo, una cattiva concorrenza che ha determinato l’abbassamento della qualità.

C’è un altro vino cui sei particolarmente legato?

Ho un rapporto strano con il “Bukkuram” che è una creatura nata dopo, voluta in un contesto difficile come Pantelleria. L’amore per il “Bukkuram” è più raffinato di altri, perché è un vino di affinità e ambiente. E’ un vino difficilissimo il passito: devi seguirlo passo passo sennò diventa aceto, diventa pazzo. Richiede dedizione e sacrificio.

Tu sei stato un pilota d’auto da corsa. Per fare vino ci vuole pazienza, bisogna aspettare anni. Come concili questo con la velocità delle automobili ?

Il mio insegnamento più grande proviene dall’automobilismo. Io ho avuto la fortuna di praticare lo sport automobilistico in purezza, come l’uva zibibbo. Non potevo essere professionista ma mi comportavo come tale con mezzi che erano il frutto dell’estro e del lavoro con i meccanici. Nelle targhe Florio perdevo fino a sei chili. Erano necessari concentrazione, sicurezza, ragionamento, velocità, riflessi e la convinzione di riuscire ad arrivare fino in fondo. Questo esercizio alla velocità praticato per dieci anni ha fatto sì che portassi con naturalezza la mentalità delle corse nel mondo del vino. Le macchine, anche se può apparire paradossale, mi hanno insegnato a campare. Il modo in cui oggi mi viene un dubbio ricorda l’attimo in cui a duecento all’ora senti un rumorino: cerchi di capirlo, di interpretarlo, scoprire se è positivo o è negativo, devi affinare l’intuito e saper prevedere le mosse. Come con le variazioni del clima o gli inattesi giri del vento. Io ero in simbiosi con la macchina: il mio corpo diventava metallo, lasciavo le mie paure, le mie gioie. Allo stesso modo conosco bene l’intelaiatura delle mie botti, la qualità del legno, le sue asperità, i suoi suoni. La meccanica che permette al vino di farsi.

3 commenti:

  1. Una storia, un vino , un Uomo che ha dato dignita a un territorio attraverso la sua sapienza, da poco spazio accanto a lui, in cambio regala grandi emozioni senza tempo...
    Ciccio Sultano

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  2. De Bartoli è il simbolo di una Sicilia più umana, meno piagnona, meno lamentosa. Un uomo del sud che molti hanno immaginato. Bisognerebbe valorizzarlo per le celebrazioni per l'Unità dItalia. Marsala 1860.

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  3. Un Uomo intelligente, appassionato, capace, sagace, profondo, lucido, volitivo, integro, affascinante, gioioso, ironico e divertente.
    Un Uomo che rappresenta l' eccellenza della Sicilia sotto il profilo umano e sotto quello enologico.
    SM

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